Libero Grassi, l’imprenditore ucciso da Cosa Nostra rappresenta il simbolo della lotta. La famiglia, alla sua morte, continuò a combattere.
Libero Grassi, l’imprenditore siciliano ucciso da cosa nostra nel 1991, è stato uno dei pochi che si sono ribellati a chi chiedeva il pizzo.
La sua storia ha rappresentato il simbolo della lotta alla mafia da parte dei liberi cittadini che vogliono lottare a qualsiasi costo.
Libero Grassi: dalla nascita all’assassinio
Libero Grassi nacque a Catania e in seguito durante l’infanzia si trasferì a Palermo. Il suo nome già segnava il suo destino: la famiglia infatti decise di chiamarlo Libero in ricordo dell’assassinio di Giacomo Matteotti.
Libero Grassi era un antifascista e studiò Scienze Politiche a Roma sotto le bombe della seconda guerra mondiale. In seguito si trasferì a Gallarate dove apprese il meccanismo dell’imprenditoria. Solo anni dopo tornò a Palermo dove aprì la sua impresa tessile la Sigma assieme alla moglie e alla sua famiglia.
Dopo l’apertura dell’industria arrivarono prontamente le richieste di pizzo.
A ciò l’imprenditore si oppose aspramente arrivando persino a denunciare, cosa rara, i suoi “aguzzini”. La sua battaglia si protrasse per anni, Libero Grassi uscì anche allo scoperto, partecipò a trasmissioni televisive internazionali, non si faceva intimidire dalle minacce ed era deciso a portare avanti la sua battaglia.
Il siciliano, dopo le denunce, si rifiutò di avere una scorta , ma diede copie della sua fabbrica alle forze dell’ordine. Cosa Nostra fu paziente.
Si attese il calo dell’attenzione sul caso per mettere a tacere per sempre l’imprenditore che ormai dava troppo fastidio e lottava lui da solo contro tutti.
Persino il giudice catanese Luigi Russo (del 4 aprile 1991) affermò che non è reato pagare la “protezione” ai boss mafiosi. La sua vita aveva comunque le ore contate.
Così nella mattina del 29 agosto 1991 Salvatore Madonia e Marco Favaloro lo seguirono e lo freddarono con 4 colpi alla schiena. Libero Grassi non vide nemmeno chi era stato a sparare.
Una morte che non portò al silenzio
La sua morte però non mise fine alla battaglia contro il racket. La moglie Pina Misano e la famiglia continuarono in questa dura lotta, tanto che pochi mesi dopo l’assassinio venne varata la legge anti-racket 172, con l’istituzione di un fondo di solidarietà per le vittime di estorsione.
Alla vittima sono state dedicate strade e scuole in tutta la Sicilia, trasmissioni a rete unificate e svariati articoli di giornale.
In seguito ottenne anche una medaglia d’oro al valore civile con questa dedica:“Imprenditore siciliano, consapevole del grave rischio cui si esponeva, sfidava la mafia denunciando pubblicamente richieste di estorsioni e collaborando con le competenti Autorità nell’individuazione dei malviventi. Per tale non comune coraggio e per il costante impegno nell’opporsi al criminale ricatto rimaneva vittima di un vile attentato. Splendido esempio di integrità morale e di elette virtù civiche, spinte sino all’estremo sacrificio”