Artur Aristakisjan, un altro tipo d’amore

Artur Aristakisjan

ARTUR ARISTAKISJAN –

 

Un altro tipo d’amore

“Non ho mai rivisto i miei film e spero di non rivederli mai. Sarebbe come compiere un incesto, come dormire con mia madre.”.  Così Artur Aristakisjan introduce la sua figura di artista contemporaneo e di narratore in mezzo alla realtà. E’ infatti sempre lui a dirci che : “Noi viviamo grazie a racconti che si raccontano da soli”. Nella sua visione, alquanto filosofica, esistono due realtà apparentemente dissociate ma facilmente sovrapponibili: la realtà data, quella che percepiscono tutti così com’è, e la realtà concepita da una nostra “camera oscura” interiore, quella che solo il nostro io può elaborare. E’ proprio all’interno di questa “camera oscura” che vengono elaborati dei racconti e che prende il via quello strumento chiamato cinema, senza passare da lì nessun racconto potrebbe poi diventare realtà effettiva e immagine sullo schermo.
Artur Aristakisjan nasce nel 1961 a Kishinev, Moldavia, in una famiglia di origine armena. Finite le scuole decide di intraprendere la via dell’accademia ufficiale trasferendosi a Mosca e frequentando la prestigiosa Moskow Film School (VGIK). Mentre completa i suoi studi, tra il 1986 e il 1990, vive in mezzo ai diseredati di Kishinev cozzando con le loro esperienze di vita e portando il mezzo cinematografico in mezzo a loro. La sua prima dimostrazione di attenzione e sensibilità sarà dimostrata da Ladoni, il suo primo lungometraggio, che sarà poi il suo diploma di laurea. Il film vincerà nel 1994 anche il Nika come miglior documentario direttamente dall’Accademia di Arte cinematografica.
Ladoni nasce quindi dentro questa comunità dissociata, emarginata e ai margini di una realtà ai più sconosciuti. Lo spettatore ne è condotto all’interno e portato per mano da una voice-over che fa da iper-testo alle immagini che scorrono in libertà, senza un preciso ordine narrativo.
La voce è quella di un padre che si rivolge al figlio ancora embrione “Figliolo, sono io, è tuo padre che ti parla. Non sei ancora nato. Ormai è un mese che vivi nell’oscurità..”.  E’ inquieto, disperato e precisa al figliolo una situazione non chiara “Figliolo, vedi, tua madre non è mia moglie.”. Fino ad arrivare al punto centrale di questo rapporto e venendo a sapere che questo bimbo non vedrà mai la luce, non nascerà  “ E non ho potere di prometterti che rimarrai in vita.”. Comunque vuole raccontargli tutto, la storia di un periodo che impedisce agli uomini di vivere “Ma voglio comunque che tu sappia tutto.”.  Da qui nasce un viaggio all’interno di una civiltà, fino a delle conseguenze estreme, fino alla dichiarazione di solidarietà incondizionata nei riguardi della povertà e di chi la vive. Il padre arriverà a sperare in un futuro da mendicante per il figlio perché sono proprio i mendicanti gli unici puri d’animo. Per finire il viaggio dichiarando, non a caso in mezzo al nulla, a una natura fatta di arbusti e macerie, “figlio mio questa è tutta la mia vita, questa è tutta la mia vita”.
Quello che ci resta di questo film è la stessa sensazione che si ha quando si ritorna da un viaggio, ma un viaggio particolare che ci ha portato a contatto con una cultura a noi prima sconosciuta e che ci fa quasi paura (estremizzato poi nel secondo lungometraggio dell’autore). Lo stile di ripresa è poi del tutto particolare, non ha premeditazione o sceneggiatura, le immagini arrivano quasi per caso. Come ci dice il regista, il metodo seguito era quello di appostarsi in mezzo alle situazioni e lasciar partire la macchina da presa senza aver predisposto nulla, senza alcun preparativo, lasciandosi muovere quasi da uno stream of consciousness, per citare James Joyce e Henri Bergson più  per assonanza di pensiero che per evidenza di fatto. Il film/racconto si muove insieme a questo procedimento quasi in maniera parallela e dopo un po’ non è più l’operatore/regista a creare e decidere le inquadrature ma è il contesto e il racconto a crearsi da solo e ad andare avanti. Proprio per questo il regista rifiutò più volte, a distanza di anni, di rivedere i suoi film. Per la paura di trovare qualche potenzialità inesplosa e provare qualche rancore nei confronti del suo operato. All’interno di questo flusso incontrollabile incontriamo però un filo rosso che viene tracciato dall’amore per la letteratura del regista ma per un certo tipo di essa. I mendicanti/storpi/attori vengono a volte coinvolti in letture che partono dai Vangeli apocrifi fino ad arrivare a quello che per Aristakisjan è l’essenza di tutto Il Decamerone di Boccaccio : “Per me il Decamerone è talmente fondamentale come libro e come lettura che per me la verità è soltanto nel Decamerone. Tutto il resto non è verità. Per me esiste solo il Decamerone oltre questo non c’è nulla.”. Il collegamento con chi l’ha provata a interpretare quell’opera, Pier Paolo Pasolini, anche se un po’ forzato, ci troviamo di fronte a due realtà diverse, è comunque abbastanza immediato e spontaneo. E un giudizio è altrettanto intuibile, il regista è un uomo che della cultura cerca di fare il suo punto forte per andare poi ad indagare la realtà che gli interessa.
Prima di ricucire quel discorso iniziato nel 1993 con Ladoni passano ben 8 anni, con l’uscita di Mesto na zamle ci troviamo in una dirompente estremizzazione di ciò che avevamo visto prima.     Il nuovo lungometraggio è, come lo etichetterà il regista, un film pericoloso. Lo spettatore è portato in una dimensione che nuovamente, come in Ladoni, non riconosce, non sente sua e questo lo spaventa, lo fa scappare via. Vedere poi coinvolti in questo mondo, così disgustoso e irreale, dei giovani belli e in salute è solo un aggravante della paura che sorprende chi guarda.       Mesto na zamle è prima di tutto una storia d’amore, un uomo decide di coinvolgere la sua donna nell’apertura di un posto chiamato “Tempio dell’amore”. In questo mondo irreale e soffocante le donne e gli uomini dovranno vivere in comunità con storpi, pazzi e mendicanti per donare a loro amore, baciarli e soprattutto farci l’amore. Nella volontà del creatore di questa “comunità” c’è una forza sotterranea che vuol far capire fino in fondo cos’è l’amore, col rischio (raggiunto) di trasformare tutto questo in un morboso e occlusivo ritrovo di sporcizia, mancanza di cura e soprattutto strada per la perdizione. La situazione degenererà quando il protagonista, abbandonato dalla sua donna, deciderà di evirarsi pur di far vedere che l’amore che prova è al di sopra della passione fisica e della vita terrena. Il suo dolore sarà anche il nostro, le sue urla strazianti ci faranno provare rigetto, oppressione e tutto questo tra l’altro non porterà a niente se non alla sua perdizione e devastazione finale.
Su Maria ruota gran parte del resto della diegesi. La ragazza compare, nella prima inquadratura, distesa davanti alla porta del “Paradiso”. E’ malata ed ha entrambe le gambe fasciate, probabilmente in decomposizione. Maria si innamorerà del protagonista e sarà l’altra rappresentazione di un amore che va molto al di là della vita. L’amore sarà da lei rivolto verso l’esterno, verso quei poveri che ancora non hanno avuto a che fare col “Tempio dell’amore”. Questo passaggio è senza dubbio decisivo perché per la prima volta ci troviamo di fronte a un esterno. Il film infatti prima di allora è girato totalmente in interni e questo andar fuori, disorienta. Il gioco degli spazi è ossessivo, come dirà Enrico Ghezzi, tutto dentro quello che è un rifugio che priva le persone dell’esperienza diretta col vissuto e con la realtà. Maria, il nome non sembra casuale, rompe questo schema e va fuori. Porta il Verbo agli altri poveri e viene fermata da un soldato. Ancora più strano risulta come il soldato invece di aggredirla, sia guardingo in un primo momento e poi si lasci andare fino ad offrirgli addirittura un pezzo di pizza. D’altronde anche la grande cicatrice che gli spacca in due il sopracciglio sinistro, lo rende più vulnerabile e in un senso uguale agli storpi del “Tempio”. Sentire Maria parlare di questo fantomatico posto in un certo senso lo attrae e incuriosisce anche se la soffiata porterà poi alla normale devastazione dalla parte delle guardie, le quali aggrediranno senza nessuna remore e devasteranno il “Tempio”.
Altro soggetto rivelante, che sembra chiudere un cerchio incentrato sull’amore, è rappresentato dall’asiatico. Questi si presenta come una persona con gravi dissociazioni mentali che l’hanno ridotto ancora a pensare come un bambino. La sua esperienza sessuale più matura è quel giocare con “la sua bambolina”, chiama così il suo pene, associato a un totale rifiuto del rapporto con l’altro sesso. Imparerà cos’è l’amore e sarà pronto anche lui ad uscire. Come insegnato dalla donna che l’ha svezzato, dovrà cercarsi fuori l’amore che gli serve. Lo troverà in una mendicante a cui cercherà di donare il suo amore e con la quale avrà un rapporto sessuale nel bel mezzo di una strada in un gioco di panoramiche che denota anche un astuto livello tecnico. Proprio su questo gioco tra interno ed esterno finirà il loro amore, perché la sua adorata morirà all’interno del tempio come a significare che l’amore va vissuto solo fuori da quel posto, ponte aperto verso la vita. La mendicante, dopo essersi tagliata le vene, disegnerà dei grandi cerchi con il suo sangue su quelle pareti come a costruire una via di fuga da quella realtà oppressiva.
Altro discorso va fatto per l’autorità dello Stato che viene continuamente minata, di quello che potrebbe dire la gente all’estero vedendo una realtà ai più sconosciuti. Come quando Vittorio Mussolini alla visione di Ossessione di Luchino Visconti, gridò “Questa non è Italia!”, certo situazioni diverse ma che fanno pensare a un contesto di reazione simile.
Ci troviamo di fronte a un’artista complesso in grado di farci capire, come ci spiegherà, che la pellicola è capace di trasformare gli oggetti in arte e di spingersi poi avanti con le sue forze fino a non farsi più controllare. E il suo invito è quello di riflettere, non è un cinema di critica sociale ma un mezzo propriamente riflessivo. E’ più una sensazione che nasce da dentro, quasi una poesia (Ladoni lo è di Naum Kaplan) che circonda uno stato d’essere, un mondo che non ci appartiene. Come dirà lo stesso Aristakisjan: “I film mostrano alla cultura contemporanea, come, in sostanza, la cultura sia una sorta di preservativo. Una pellicola di separazione tra tutti. Ma esiste un contatto che non si può separare con niente….”. Un contatto che i suoi film vanno a cercare, a scavare e a tentare di far risaltare, riuscendoci ma solo per chi vuole stabilirlo quel contatto.
Nel complesso di quel gioco chiamato film troviamo personaggi di tutti i generi: chi metteva il montaggio alla base dell’opera, Stanley Kubrick; chi veniva cercato in sala montaggio perché non c’era mai, Roberto Rossellini; chi diceva “ora che ho girato nulla può cambiare”, John Ford.
Artur Aristakisjan è sicuramente un’artista e grazie all’opera ormai straordinaria di Ghezzi è stato portato sotto i nostri occhi (come tanti altri) per comprendere anche le diversità culturali del mondo. Un’artista che al montaggio dava un’inquadratura esistenziale, definendo l’immagine come una caduta, un essere e l’intervento del montaggio come una mutazione del gioco falso all’interno di un qualcosa che falso non è. Un racconto che si sviluppa in se stesso ed è diverso da ogni punto di vista da cui viene raccontato. La stessa immagine o inquadratura viste in due modi diversi producono due racconti diversi e da qui l’intreccio. Un modo particolare di usare la macchina di presa all’interno di una realtà, non così come viene ma spinta dalla forza che si crea dentro, come se andasse da sola controllata da un irrefrenabile stream of cousciosness. E nei suoi film un diverso tono della parola amore, una ricercatezza che vuole dimostrare come ci siano molti modi di amare.
Un cinema diverso, una cultura diversa, da conoscere e capire per arricchire quello che siamo.

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